I manoscritti di Luigi Capuana

Se la disamina e la successiva fase della collazione dei  manoscritti che hanno tràdito un’opera del nostro autore possono dare delle indicazioni sul suo modo di procedere nell’elaborazione di un testo, lo studio completo del corpus dei  manoscritti finisce per darci un’idea precisa, quasi una “fotografia panoramica” sul processo creativo e sul suo metodo di lavoro.

Il corpo a corpo che si intraprende con un manoscritto, per approntarne una descrizione generale e completa, conduce a evidenziare la genesi dell’opera, a seguirne da presso la progressione nella stesura, i ripensamenti, le varianti, lo stile, i supporti utilizzati, a cogliere momento per momento l’instancabile lavoro di limatura a cui è sottoposta e, a volte, a evincerne il rapporto affettivo che l’autore stabiliva con il testo e a ricostruirne il passaggio all’edizione a stampa.

Premesso tutto ciò, passiamo a enucleare quelle che sono le caratteristiche peculiari del metodo di lavoro del Capuana.

Dato per scontato il suo eclettismo letterario, che spazia dal romanzo alla novella, dalla letteratura per ragazzi ai testi scolastici, dalla fiaba al racconto fantastico, dal teatro, sia in lingua che in dialetto, alla critica letteraria, dalla poesia alla prosa scientifica, risulta ovvio che ci si imbatterà in problematiche filologiche diverse a seconda del genere.

In linea generale, sulla scorta dello studio condotto sui  manoscritti, possiamo, senza ombra di smentita, classificare il Capuana in quella categoria di scrittori prolifici e versatili il cui prima creativo necessita di una certa dose di caos, insomma un vulcano in continua eruzione che disperde le sue effusioni magmatiche in mille rivoli.

Apprestandosi a scrivere un’opera, Capuana non si preoccupava minimamente di procurarsi in maniera adeguata e sufficiente il supporto cartaceo idoneo, di conseguenza non c’è da stupirsi, se per la stesura di molti  manoscritti  abbia fatto ricorso a 3 o, addirittura, a  4 tipi diversi di carta.

Se il supporto fin lì utilizzato per la stesura di un’opera non era momentaneamente disponibile, non esitava a utilizzarne un altro, totalmente diverso, per poi ritornare, forse, in un attimo di pausa creativa, con nonchalance, all’originario. Alla stessa stregua non si creava problemi nello scrivere un testo solo sul recto per 10 o 20 carte, e poi, per mancanza di carta, continuarlo a ritroso utilizzando anche il verso delle stesse.

Sono molti i casi di  manoscritti con opere diverse, una sul recto l’altra sul verso; un esempio significativo è quello del manoscritto che contiene la novella Mostruosità  e la Recensione a I Malavoglia.

Un dato certo è, che Capuana, esaurita la fase caotico-creativa, non considerava il lavoro terminato, anzi, come attestato dall’ingente numero di opere di cui si conservano più  manoscritti, iniziava la fase della seconda stesura in pulito o pseudo tale, visto che poi ritornava anche su queste per il lavoro di limatura. Infatti, se i  manoscritti con la seconda stesura manifestano un travaglio minore, non sono anch’essi esenti da ripensamenti e correzioni.

È sufficiente consultare un qualsiasi manoscritto contenente la seconda stesura di un’opera teatrale per convincersi di come il Capuana intervenisse sul testo, non solo per apportare delle modifiche tecniche tese a snellire l’azione e migliorarne la resa scenica dell’opera, ma anche introducesse delle varianti di carattere lessicale, per meglio determinare il linguaggio e le situazioni (vedi Malia, Un brindisi, Giacinta).

Accanto a questo aspetto, ne convive un altro di segno opposto, ovvero la maniacale pignoleria con cui annota molte volte la progressione nella stesura di un’opera, segnando a ogni sospensione la data e l’ora, oppure la fine della stesura, come nel caso della versione teatrale della Giacinta: «Oggi (anni di mia età 48, 7 mesi e 28 giorni) 2 p.m. 27 dic.1887.»; con l’aggiunta: «Credevo di finire alle 11 a. m. e così avevo annunziato. Ma non ho saputo calcolar bene il tempo  e son stato interrotto due volte».

Il manoscritto di questa opera permette, inoltre, di ricostruire dettagliatamente il meccanismo di elaborazione dal romanzo al dramma. Il Capuana indica volta per volta a sé stesso il luogo su cui lavorare (i riferimenti ai capitoli e alle parti riportano all’edizione 1886), spesso traendone integralmente i dialoghi.

Un cenno, non di secondaria importanza, va riservato alla scrittura del Capuana, sempre corsiva con un tratto sottile che si ispessisce soltanto in alcuni momenti, che potremmo definire di stanchezza, e che sovente coincidono con un cambio di pennino. In ogni caso, per quanto minuta, la sua grafia risulta abbastanza intellegibile.

Abbiamo già accennato alle varianti delle opere. Va qui aggiunto che non si riscontra un modo unico, sistematico, di annotarle. Ogni soluzione è ammissibile per lo scrittore. Infatti le possiamo trovare sopra, sotto, al margine, a piè pagina e non ultimo scritte e annotate a sé stanti, come nel caso della Giacinta.

            Un discorso a sé va fatto per la lingua del Capuana. Si è soliti suddividere la produzione dello scrittore menenino in opere in lingua e opere in dialetto, ma ad un’attenta analisi questa rigida classificazione non regge, o almeno non risulta valida per alcuni testi, come per esempio per  Gli “Americani” di Ràbbato.

Premesso che la lingua utilizzata offre un esempio d’italiano tra fine Ottocento e inizio Novecento, con  tutte le caratteristiche di questo stadio dello standard, l’osservazione dettagliata dei  manoscritti palesa l’ecclettismo linguistico del Capuana. 

In alcune opere, egli fa ricorso ad un vero e proprio pastiches linguistico, per connotare i vari personaggi: si va dalla lingua nazionale all’italiano regionale, dal dialetto siciliano all’uso di toscanismi, dal latino a qualche francesismo, né manca,  come nel caso del già citato Gli “Americani” di Ràbbato,  qualche termine inglese (street, farm), il tutto in una mescolanza che raggiunge il suo acme nei casi di comutazione di codice.

            Si è accennato in precedenza al rapporto affettivo che lo scrittore finiva per avere con determinati manoscritti, affetto molte volte manifestato con vere e proprie note apposte sul verso dell’ultima carta, o nel caso eclatante del dono del manoscritto della Giacinta alla moglie con dedica: «A te Ada, questo autografo, uno dei miei romanzi a cui sono più affezionato! Luigi Capuana. Roma, 21 settembre 1898».

L’esame di tutti i  manoscritti ha consentito di ritrovare una miriade di note, concentrate soprattutto sul verso dell’ultima carta, con indicazioni al tipografo sulle caratteristiche che doveva avere l’edizione a stampa, sul corpo dei caratteri da utilizzare, sull’invio e la restituzione del manoscritto insieme alle bozze.

Spesso il Capuana indica l’indirizzo a cui restituire il materiale, dato questo che ci permette di seguire i suoi spostamenti e in un certo senso di tracciare una mappa delle sue dimore.

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