Luigi Capuana come divenne novelliere?

Per scoprirlo occorre leggere la «Confessione a Neera» del 20 agosto del 1887 e la Prefazione de “La più belle novelle di Luigi Capuana” a firma di Lucio d’Ambra del 1938.

«Eccetto che si vogliano ritenere come forti indizii della mia vocazione di novelliere tutte le bugie da me dette nella fanciullezza (e ne dicevo parecchie!), io non ricordo nulla che possa dimostrare fin d’allora una decisa tendenza del mio ingegno all’invenzione narrativa. Tutto anzi mi fa credere, stando alla teorica degli indizii, che io ero nato per fare ogni cosa, — il poeta lirico, il poeta epico, il poeta tragico, il commediografo o peggio — all’infuori di quello che ho poi fatto, sotto la cattiva influenza delle circostanze esteriori. Si ha un bel dire: «naturam expellas furca, tamen usque recurret!» («Anche se caccerai la natura con la forca, essa tuttavia ritornerà sempre» Orazio, Epist., I, 10, 24) […]

A venticinque anni io, futuro novelliere e futuro romanziere, ignoravo assolutamente, oh vergogna! che fosse al mondo il Balzac. Questo nome mi capitò, per la prima volta, sotto gli occhi (1864) in un volumetto di non ricordo più qual discepolo dell’abate Fornari , dove si esprimevano evidentemente le idee di quella scuola e di quel tempo intorno al romanzo contemporaneo. Vi si citavano pochi nomi di scrittori stranieri, e del Balzac vi si diceva: «il leggerissimo Balzac»; nient’altro. Ora la cosa mi sembra enorme: ma allora quel «leggerissimo Balzac» non mi fece né caldo né freddo. Come vedete, tutto mi andava a seconda per farmi rimanere quello che la provvida Natura dovea avermi impastato nel seno materno. Infatti allora mi preoccupavo di novelle e di romanzi quanto del terzo piede che non ho.
Dapprima mi ero dunque buttato alla lirica, anche (perchè non confessarlo?) ai poemi lirico-ciclici; ma fu una febbre passeggiera, come chi dicesse la rosolia dell’arte: non lasciò traccia. Venne, poco dopo, il morbillo; ed ebbi parecchi anni di illusioni sublimi. Mi credevo, sul serio, destinato a diventare niente meno che lo Shakespeare d’Italia. […]

Sì, io rimpiango, mia buon’Amica, le illusioni shakesperiane portatemi via dal vento… dal vento (come chiamarlo?) dal vento della così detta cultura moderna, che cominciò a soffiarmi forte nel cervello dopo ch’ebbi la malaugurata idea di recarmi in Firenze. Che brutta cosa è la vita! Le più rette intenzioni vengono falsate dal caso, senza che uno possa opporvisi. È un lavoro lento, sotterraneo, di cui noi stessi non abbiamo, mentre esso si fa, neanche il minimo sospetto: eppure avviene dentro di noi! Un bel giorno l’impalcatura crolla giù e noi ci accorgiamo, con immensa sorpresa, che abbiamo nel cervello un altro edifizio, nuovo di pianta. Ma il peggio è che ne indoviniamo lo scopo troppo tardi, quando ogni tentativo di rimediarvi riesce impossibile. E così io, quell’io ch’ero andato in Firenze per perfezionare il mio, diciamolo pure, genio drammatico, un bel mattino o non mi svegliavo con una specie di novella in testa? E il vederla poi sulla carta, ed anche stampata, nella Nazione, non mi fece punto avvertito, punto! che qualcosa era già rovinato dentro di me, da cima a fondo. […]

Non mi accorsi, lì per lì, del guasto in me prodotto da quella insignificante novelluccia, e continuai, tranquillamente, colla dolce incoscienza dei miei venticinque anni (che valevano appena i quindici anni di oggi!), continuai a sognare drammi in versi, a scriverne e a bruciarne, poco dopo, i manoscritti per modesta, notate! incontentabilità di autore. Mi riconoscevo molto lontano, moltissimo, dal mio tipo shakesperiano. E non era questo un buon segno? Non voleva dire che proprio qualcosa di serio si nascondesse in quella mia vocazione, la sola, la vera mia vocazione?… Ma il destino non volle! […]

Ma quando ho sentito rimproverarmi aspramente i miei criterii d’arte intorno alla novella e al romanzo; quando ho riflettuto su quelle lavate di capo di critici e di lettori, stampate o dette a voce, buscatemi per via del mio verismo, naturalismo, pessimismo ed altri ismo di cui sono stato con tanta rara unanimità ripetutamente accusato, che tentennamenti di capo, che profondi sospironi nel riconoscere che i drammi storici in versi sciolti (non martelliani, oh no!) me le avrebbero certamente evitate! […]

A quei tempi (1865 o in quel torno) non ero ancora completamente deciso rispetto al tipo del mio verso drammatico. Ondeggiavo tra il maffeiesco della traduzione dello Schiller e la seconda maniera del Niccolini , quella dell’Arnaldo e del Filippo Strozzi; ma avrei finito col decidermi: idoleggiavo una saggia fusione delle due forme. […]

Quella malefica gramigna del Dottor Cymbalus avea continuato intanto a invadere lentamente, sordamente, i miei maggesi intellettuali. Ed ecco che in quei giorni mi capitava in mano il Balzac! L’Italia maledica, come faccio io, Carlo Levi, allora corrispondente del Pungolo milanese, il biondo e pallido Carlo Levi che mi spinse, coi suoi suggerimenti, a leggere il Balzac! Maledica la libreria Bocca, istallatasi di fresco nella capitale provvisoria, che mi vendette, a un franco e venticinque centesimi l’uno, i quarantacinque volumi, tutti, della Comédie humaine! Maledica Telemaco Signorini, l’ingleseggiante pittore di Piazza Santa Croce, che mi rivelava da lì a poco (che fretta aveva egli?) le novelle e i romanzi del Diderot! E se l’ltalia, in questi momenti africani, non vuol darsi tanta pena, non importa nulla: gli ho maledetti abbastanza io, perchè il Signore li punisca, quando che sia, nella vita presente e nella futura. […]

Per farvi un’adeguata idea della intensità e profondità di quel mio pervertimento intellettuale, vi basti il sapere, gentile Amica, che io rovesciai quasi subito i miei altari storico-drammatici e vi cancaneggiai sopra empiamente, col furore di un credente diventato a un tratto libero pensatore. — Il dramma storico?… Puah! — E arricciavo il naso come dinanzi a una carogna. Però non avevo ancora buttato via ogni ultimo resto di pudore: il teatro rimaneva sempre (apparentemente almeno) la mia unica passione. Drammi storici no, puah! ma commedie moderne sì, alla Augier, alla Dumas (il giovane, allora), alla Sardou anche, perchè no? Quel diavolo di Sardou avea del buono, una certa abilità scenica… E per prepararmi convenientemente alla mia nuova carriera, mi diedi a fare di botto il critico drammatico; giacché ho avuto sempre il lodevole costume di voler apprendere bene il mestiere prima di mettermi ad esercitarlo. […]

Intanto ch’io facevo, pazientemente e coscenziosamente, il mio noviziato di commediografo, il veleno della novella e del romanzo proseguiva senza ostacoli il suo terribile lavoro. Avrei dovuto, logicamente, occuparmi piuttosto di selve, di tele di commedie, invece di architettare, come facevo, future novelle e romanzi. Che! Che! Colla magra scusa di apprendere intanto tutti i segreti della commedia moderna, io mi scapricciavo, per distrarmi, dietro altre fantasticherie sul genere del Dottor Cymbalus e, dalla lontana, occhieggiavo, ma incoscientemente, un romanzo naturalista e psicologico insieme (allora chi aveva un’idea del naturalismo?); però senza mai spingermi oltre il semplice ideare. Coscientemente, credevo di esser tutto della commedia: e il problema del verso comico mi torturava più di prima. Abbozzavo dei dialoghi, delle scene staccate, unicamente per farmi la mano a quel verso… Mi sorrideva la splendida gloria di creare quel verso per la nostra Commedia moderna!…
Sapete come andò a finire? Peggio che col dramma storico! E un bel giorno, mettendo insieme in un volume quelle che mi parvero le meno peggio delle mie appendici drammatiche, osavo, spudoratamente, scrivergli sulla fronte, in una prefazione di trentadue fitte pagine, la condanna a morte della commedia contemporanea: né più, né meno! Non vi figurate che io abbia esitato un istante, che mi sia almeno tremata un po’ la mano nel firmare quella spietatissima sentenza di morte… Nulla! Nulla! Il mio pervertimento era al colmo! Ne ricevetti una giusta punizione con quella smotta di articoli che mi si rovesciò addosso, canzonandomi, bistrattandomi, gridandomi: crepi l’astrologo!

Così fosse stato! Invece, a farlo apposta, da quel giorno in poi, gli autori comici, vecchi e giovani, provati e promettenti, quasi messisi di accordo, non ne imbroccarono più una e diedero sciaguratamente ragione all’astrologo. Qualche critico, di quegli stessi che m’avevano picchiato addosso, rammentò dopo con rammarico la mia brutta profetica sentenza e confessò che, insomma, non avevo, poi, tanto torto! […]

D’allora in poi, si capisce, il demonio della novella e del romanzo fu in pieno possesso di me; né tutti gli esorcismi e tutta l’acqua santa dei critici e del pubblico valsero a scacciarmelo via! Però era giusto, era naturale che io trovassi nella mia stessa colpa il mio tremendo gastigo. Avevamo in casa nostra le novelle e i racconti sentimentali del Carcano; avevamo i romanzi patriottici del D’Azeglio, del Guerrazzi, dello stesso Cantù! (Il Manzoni, né sentimentale né patriottico, veniva, se mal non ricordo, ritenuto né carne né pesce, e padre Cristoforo, colla sua pazienza da frate, cominciava a seccare un pochino la nostra forte critica anticlericale). Ebbene? Io non dovevo aver occhi — fu il mio gastigo — per scorgere la bella luce sentimentale e patriottica risplendente in casa nostra, e dovevo lasciarmi accecare dal torbido fumo balzacchiano, flaubertiano, zoliano, degoncourtiano, il peggio fumo che mai ingombrasse il limpido cielo dell’arte, e che mai lo appestasse colle sue fetide esalazioni!… Messo caritatevolmente sull’avviso al mio primo tentativo dei Profili di Donne, facevo orecchi di mercante e non mi lasciavo salvare. E ragionavo, infelice! e tiravo dello conseguenze logiche, senza rammentarmi che Dante aveva fatto dire al Diavolo: «Tu non pensavi eh’ io loico fossi.» Fu appunto la logica del mio diavolo quella che mi perdette!
Al solito, m’ero accinto a studiare il mio nuovo mestiere. E così finivo collo smarrirmi nell’intricato labirinto delle forme letterarie. Intanto mi pareva di procedere francamente. — Diamine, dicevo, se la scienza riconosce un graduato svolgimento nelle forme naturali, un continuo perfezionamento, un non interrotto passaggio dalle forme inferiori a quelle superiori, e perchè non dovrebbe esser così anche nelle forme dell’Arte? La natura, che è quasi l’accidente, sarebbe dunque ritenuta soggetta a leggi fisse, inalterabili, e lo spirito ch’è qualcosa di più elevato, di più raffinato, l’opposto dell’accidente, no? — Mi pareva un po’ strano. Non si trattava, supponevo, d’una semplice analogia, ma di un che d’intimo, di sostanziale, di organico. Tutta la storia letteraria, guardata con quelle traveggole, sembrava mi desse ragione. E così mi affondavo più e più nella melma della novella e del romanzo moderno. Naturalista? Verista? Il nome mi preoccupava poco. Dicendo: naturalista, verista, tanto per farmi intendere dagli altri, volevo significare che, secondo me, nel mettersi a scrivere delle novelle o dei romanzi, bisognava badare a foggiar quest’opera d’arte giusta la sua ultima forma; provvisoria anch’essa, ne convenivo; tanto che cercavo anch’io, nella misura delle mie deboli forze, di svolgerla, d’ampliarla o, per lo meno, di ripulirla togliendone via quanto ancora rimaneva in essa di fronde inutili, di rami morti. Infatti, dai Profili di Donne al Bacio (poi ribattezzato Storia fosca) dal Bacio ad Homo e da questo a Ribrezzo, se Voi voleste darvi la pena di osservare attentamente (ma, in verità, non mette conto di confondersi in tal esame) vedreste evidentissimi i segni del penoso lavorio, diretto ad ottenere il resultato di render la novella, dirò così, autonoma, qualcosa d’indipendente, di fuori del tutto dal suo autore. Erano, immaginavo, i veri e soli affetti che poteva risentir la novella, nella sua qualità d’opera d’arte, i soli affetti ch’essa poteva risentire dell’ indirizzo scientifico della moderna cultura. Già, l’attenta osservazione della natura, lo studio minuzioso della verità ritenevo che non sarebbe bastato. Insomma, essendo l’opera d’arte principalmente anzi unicamente forma, occorreva che la sua rinnovazione accadesse appunto lì, o era inutile lo spendervi intorno lavoro, tempo ed ingegno… Come se il pubblico, che legge per svagarsi un momentino, avesse potuto preoccuparsi di questo fisime di forma e non forma! Come se il grosso pubblico, che fiuta appena da lontano la seria cultura moderna, avesse voluto sentirsi rifriggere nelle novelle e nei romanzi quei casi brutti, volgari, stomachevoli che avrebbe potuto vedere, che anzi vedeva da mattina a sera nella vita reale! C’era, non ve lo nascondo, da sospettare un po’ che il pubblico vedesse, forse, ma non guardasse, non osservasse ; tant’è vero che, ritrovando nelle mie novelle o in quelle degli altri che facevano come e meglio di me, quegli stessi personaggi, quegli stessi avvenimenti che dovevo ritenere avesse ben osservati nella vita reale, s’adombrava, rinculava, non voleva riconoscerli. — Non è vero, — urlava, — tu calunuii l’amanita! — Io strabiliavo. Come? Avevo preso i miei personaggi proprio dal vivo; spesso spesso non avevo fatto altro che mutargli i nomi, per un riguardo sociale facile a capirsi; non ero andato a cercarli col lanternino, ma gli avevo ritratti volta per volta, quando mi si erano casualmente presentati dinanzi; non di rado avevo perfino attenuato qua e là qualche crudezza della realtà per una residuale ombra di pregiudizio letterario; e i critici e il pubblico mi trattavano a quel modo? […]

Che , picchia e ripicchia, colla parola e coll’esempio (coll’esempio certamente più autorevole degli altri che non col mio) il naturalismo e il verismo oggi non paiano più in Italia quelle bestie nere d’una volta? […]

Un altro, ripeto, non si consolerebbe? Non comincerebbe a credere che, infine, il demonio della novella e del romanzo moderno non sia così brutto qual vien dipinto, precisamente come il vecchio diavolo del proverbio? Ma io, no; neppure per sogno! Ritengo, invece, che tutto questo sia un miraggio ingannatore, una delle tante solite malizie diaboliche per meglio inretire le menti deboli, le coscienze tentennanti: e mi trovo in un mare di confusione. […]

Tanto, è probabile, probabilissimo ch’io muoia impenitente. Chi ha bevuto berrà; chi ha scritto delle novelle ne scriverà delle altre; chi ha commesso un romanzo, non si arresterà sulla china. È una fatalità: non le si sfugge.
Il solo peso intanto che vorrei togliermi dalla coscienza è questo qui: ero io nato per essere un autore di drammi storici in versi sciolti e son poi, per caso, per violenza della sorte, diventato un novelliere, un romanziere? Questi rimorsi che mi assediano, che mi tormentano, sono giustificati? O è probabile che io non fossi destinato dalla natura né a l’uno né all’altro ufficio e per ciò farei benissimo di smettere, come smetto questa troppo lunga confessione?
Per la quale, se mai doveste prendervela con qualcuno, prendetevela con Emilio Treves che ha creduto necessaria una salsa, a fine di ridar sapore alla presente ri… (stavo per scrivere: rifrittura; ma l’editore se l’avrebbe avuto a male ed ho ringoiato la parola) per ridar sapore alla sua nuova edizione di Homo riveduta, corretta e aumentata. Egli si figura (anche un editore navigato come lui può avere delle ingenuità!) che il pubblico sarà così adescato a comprare e a leggere il libro (a lui gli basterebbe che lo comprasse soltanto). Zitta! Lasciamogli questa dolce illusione. Domani te n’avvedrai! diceva il pievano Arlotto, quando benediceva le sue parrocchiane coll’olio.»

Luigi Capuana.
Mineo, 20 agosto 1887.

Luigi Capuana, lo scrittore nel ricordo di Lucio d'Ambra

«Luigi Capuana, a Roma, fu il mio padrino letterario, tra il 1894 e il 1900, avendo egli accolto il timido ragazzo, su presentazione di Achille Torelli, nella sua casa di Via in Arcione. […]

Vecchio da giovane e giovane da vecchio furono i due tipi contrastanti di Luigi Capuana. […]

Questo fu Capuana: un caro, grande, umanissimo scrittore italiano per il quale la modestia nocque alla gloria e la necessità di dover troppo lavorare per vivere tolse la prospettiva necessaria a isolare i capolavori che aveva scritti senza avvedersene. Egli stesso sosteneva: «Troppo lavoro, per lavorare bene. Ci vorrebbe una legge che, quando si è stanchi, mettesse chi ha forze scemate in condizione di non sperperare ancora e di raccogliersi in una sola fatica.» […]

«Capuana raccontava a noi giovani: «Sapete cosa ci fu necessario prima di tutto? Una prosa viva, efficace, adatta a rendere tutte le sfumature del pensiero moderno. Non c’era. Nossignori: non c’era. Prosa viva occorreva a noi. E ne imbastimmo, senza Crusca, una a modo nostro, necessaria, tutta nervi e muscoli in azione, mezza francese, mezza regionale, ma che faceva al caso nostro. E ci gridarono – Scrivete male! Noi abbiamo inventato questo, ragazzi, per far viva la prosa: noi abbiamo parlato scrivendo.»
Gran tempo di battaglia quello del gruppo verista siciliano che grida contro la nazione intera, contro i filologi, i linguaioli e i professori incalliti nelle abitudini. E Capuana, levava in alto gloriosamente, come una bandiera, le pagine del Verga con il medesimo grido di vittoria che altri, mezzo secolo prima, avevano lanciato per il Manzoni. […]»

«Capuana prima di far ritorno a Catania gridava: «Non è vero. Finiamola: non sono naturalista. Ho ammirato, pur discutendone gli eccessi di scuola, Emilio Zola. Gli ho dedicato il mio primo romanzo, Giacinta. Ma io non sono legato a nessuno. Mia cura è stata sempre quella di raggiungere la maggiore sincerità possibile di espressione.»
Gli doleva vedersi costretto ad essere – come egli diceva – «naturalista per forza». E aggiungeva: «Il mio credo letterario è questo: io sono, caso mai, naturalista e verista quanto sono idealista e simbolista. Il mondo è così vasto, e ha tanta molteplicità di aspetti esteriori e interiori, che c’è posto per tutti questi diversi aspetti nelle sfere superiori dell’arte. Perché vogliamo restringere e limitare? Perché vogliamo imporre a tutti di guardare il mondo dal medesimo punto di vista? Il concetto, in un’opera d’arte, è cosa secondaria. L’importante è che esso diventi forma viva.» In verità Capuana rimase sempre fedele a se stesso e ai suoi ideali di sincerità, di verità, di osservazione diretta, senza valore ideologico.
Stampando uno dei suoi ultimi volumi di novelle, Capuana si faceva scrivere una prefazione a Coscienza da Renato, suo comodo alter ego, l’altro e più segreto se stesso che poteva aver l’aria di dire coraggiosamente verità che egli, Capuana, sentiva il dovere di tacere: «Mi hai ripetuto varie volte che ti stimeresti felice se potessi avere la certezza che qualcuna delle tue novelle ti sopravvivesse almeno mezzo secolo…»
Il voto è esaudito: le novelle di Luigi Capuana sopravvivono ancora oggi a tutta l’opera sua, degnamente fiancheggiate da due o tre robusti e ariosi romanzi.
Ricordo Capuana in piedi per ore e ore davanti al suo scriviritto, una papalina sul cranio roseo e lucido per aver calda la testa, le lenti sul naso la penna rapida nei segni minuti su le cartelline senza una perplessità o una cancellatura. Scriveva solo; e sembrava che altri gli dettasse. Ma rivedo anche il maestro accanto a me nelle nostre lunghe passeggiate. […]

Andava avanti nelle sue giornate così: pieno dentro del mondo che doveva venir fuori, con tutti i suoi personaggi veri ed immaginari che dentro gli vivevano, parlavano, si azzuffavano, si arrabattavano, viventi e dinamici più delle ombre che gli stavano attorno, indifferenti ed esanimi, per la strada o più e meglio degli amici che, a certe ore, gli riempivano la casa. Capuana con l’altra sua vita, quella interiore e più profonda, viveva a braccetto coi personaggi futuri delle sue immortali novelle. Ora per ora, minuto per minuto, respiro per respiro, egli covava la sua gigantesca nidiata.
Luigi Capuana, vicino al suo tramonto d’artista, si dannava: «Non mi conoscono… chi legge un libro e chi un altro… ho tante diverse valutazioni per quante sono diverse letture… ho i meriti, forse, sparsi qua e là. E nessuno, onesto contabile, fa mai le somme. Ma quando sarò morto…» Era il suo ritornello. E il vecchio maestro aveva ragione.»

SCRITTORE

non solo Verismo

SCRITTORE

Scopri l'eclettismo capuaniano
Clicca

FOTOGRAFO

Lo sperimentatore

FOTOGRAFO

Curatore dello scatto e dello sviluppo
Clicca

CRITICO

Linfluenzatore

CRITICO

Modellatore del gusto letterario degli italiani
Clicca

SPIRITISTA

oltre il vero

SPIRITISTA

Cultore e praticante dell'occulto
Clicca